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martedì 6 dicembre 2011

La parola FINE

L’agente Ferrante non credeva alle sue orecchie. La frazione, l’indirizzo e il civico, gli stessi. Lo stesso luogo che dieci anni prima era stato il teatro degli orrori che aveva sconvolto il paese. L’talia era rimasta incredula davanti alla violenza prima, all’orrore dopo, quando la mano che aveva interrotto con quarantotto coltellate la vita di una giovane donna e del suo bambino si era rivelata essere quella dell’altra figlia, allora soltanto sedicenne.
Anche in quell’occasione era toccato a lui raccogliere la chiamata. Un tentativo di rapina ad opera di extracomunitari, rumeni, chi se ne sarebbe stupito? Non sarebbe stato certo il primo episodio, la gente è esasperata da un clima di paura e violenza che ha bruscamente interrotto una vita all’insegna della civiltà e della pace. Questa era gente che lasciava la porta di casa aperta per capirci, con le chiavi appese nella serratura, senza spranghe alle finestre, senza allarmi tecnologici. E lei questo lo sapeva bene quando ha raccontato in lacrime la sua storia ai vicini prima e alla polizia dopo. Ferrante se la ricorda, un viso pulito, ingenuo, la classica ragazza della famiglia bene del nord, con le mani pulite.
Ma era stato proprio il sangue che macchiava quelle manine curate a farla finire in carcere per dieci anni.
Se ne è parlato a lungo; in tanti si sono continuati a domandare come fosse stato possibile, come fosse potuta accadere una cosa tanto orrenda, assurda, inconcepibile, come se fossimo davvero ancora capaci di stupirci per questi orrori.
Si è parlato a lungo anche di lui, il padre.
Quell’uomo in un solo istante si è visto portare via moglie e figlioletto piccolo. E da chi? Dalla figlia maggiore.
L’agente Ferrante si è chiesto mille volte come si sarebbe sentito se fosse capitato a lui, lui che ama teneramente la moglie dopo tanti anni e che darebbe la vita per i suoi tre figli.
Cosa avrebbe provato se uno di loro avesse fatto qualcosa di simile? Come si sarebbe sentito? Cosa avrebbe fatto? Se lo sarebbe chiesto ancora mille volte l’agente Ferrante ma non sarebbe comunque arrivato mai a comprendere il comportamento di quel padre, il vero enigma di tutta quella triste storia.
Lui che è rimasto accanto a quella figlia in ogni circostanza alla quale fosse ammessa la sua presenza.
Lui che, durante il processo, non ha rilasciato una dichiarazione.
Lui per una volta alla settimana ha fatto visita alla figlia in carcere, rimanendole vicino e sostenendola negli studi.
E sempre lui, aveva riverniciato le pareti di quella casa degli orrori, dove si sono fermati i sogni, le speranze, dove sono andati in fumo i sacrifici e i progetti di una coppia che ha visto nascere una famiglia. Nessuno avrebbe potuto mai immaginare che quella piantina a cui hai dato ogni giorno acqua e cure si sarebbe rivelata una pianta carnivora.
Quella famiglia era implosa in una sera di ribellione e sangue. Sconosciute le ragioni, inutile cercarle dove ragioni non esistono, la violenza si nutre a volte solo di se stessa.
Lui però era rimasto lì, fedele a quell’idea di casa, dove era nato tutto e dove si erano consumati anche tanti momenti felici.
E’ rimasto lì per dieci anni.
Ieri lei è uscita, fine pena, dieci anni dopo.
Una donna, bella, adulta, lunghi capelli scuri ma ancora quello sguardo pulito, come se fosse stato tutto lavato via.
Ad accoglierla, con la sua grande macchina da uomo benestante del nord, lui, papà.
La portava a casa ieri sera, dopo dieci anni, la riportava là, in quella casa che lui ha riverniciato e rimesso a posto, per accogliere quel che resta di una famiglia distrutta: il suo omicida.
E così ieri l’agente Ferrante, come un po’ tutti poi, è rimasto un po’ attonito davanti alla tv che riproponeva quelle immagini di una famigliola che si ricomponeva, come quando, dopo una marachella, ti vengono a riprendere da qualche parte mamma e papà per riportarti a casa. Solo che mamma non c’è, e non c’è nemmeno il fratellino che ti considerava la sua migliore amica. C’è quella casa, integra, ancora in piedi, dove un padre  che nessuno ha saputo interpretare per anni ti ha aspettata alternando giorno e notte per dieci anni senza che nessuno capisse cosa pensasse.
Fino a stamattina.
Questa chiamata annuncia qualcosa di brutto.
L’agente Ferrante vorrebbe ignorarla e tirar dritto, andare a presidiare la scuola per assicurarsi che i ragazzi entrino alle lezioni senza incidenti ma, ancora una volta, è lui a trovarsi più vicino.
Quando arriva davanti alla villetta il gruppetto dei vicini di casa ha impressa sul viso la stessa espressione che deve avere lui, un angoscia senza sorprese.
Forse nessuno avrebbe voluto pensarci prima, per quanto adesso appaia tutto così chiaro, logico, consequenziale.
Il corpo della ragazza, riverso nel suo letto, nella cameretta con le pareti rosa pastello, perfettamente ordinata, con i fiori freschi davanti alla finestra, e un cadavere in un bagno di sangue sul letto. Un colpo in testa.
Lui seduto alla scrivania del suo studio, come nei film di spionaggio, stessa sorte. Sulla scrivania, posizionato a debita distanza affinchè non venisse impregnato di sangue (ma in dieci anni hai avuto tempo di pensare a tutto) un biglietto: una famiglia sta insieme.
La spiegazione di tanto mistero, il lento scorrere del tempo, un finale da grande regista, l’attrice principale, al massimo della naturalezza.
La parola fine.
La famiglia comprende.
La famiglia sostiene.
La famiglia protegge.
La famiglia giudica.
La famiglia perdona.
In quella notte di orrore e rivelazione, negli occhi limpidi della figlia, aveva riconosciuto se stesso e il male che annida e metastatizza, divenendo genetico.
Aveva protetto la sua creatura dalla società, per riportarla a casa prima che venisse smascherata e condannata per ciò che realmente è.
A casa, in famiglia. Papà ti ama, papà si prenderà cura di te.

lunedì 7 novembre 2011

Il rapporto perfetto

Ma sì che ti amo, certo che ti amo, come potrei non amarti.
Cheppalle però, non possiamo parlare di altro? Non possiamo litigare per il telecomando come ogni coppia che si rispetti e cristo, perchè non mi lasci piantare uno di quei musi broncetti tutti vocette e mugugni che si risolvono poi in inevitabili “sì, sì oh sì! e adesso fammi i grattini..” perchè dico, mica vorrei rinchiuderti nel tuo momento refrattario e lasciarmi qui nel mio momento cosmico estatico asfittico stitico ah se ti amo.
Ma ti amerei certamente di più se solo tu, se solo tu non avessi quell’aria così paziente con me, come se fossi una bambina da sopportare, educare, tollerare. Insomma cosa vuoi?
Sei così buono con me tu, lo so che non sai dirmi di no, oh no! non dire niente, non è necessario. La verità è che ti senti in competizione con me ma non devi, davvero.
Sono una donna libera, indipendente, autonoma, eh sì, sei un uomo fortunato tu, ma non fare tutti quei rumori con la bocca cristodiundio cosa stai mangiando un pluriball? Devo insegnarti a stare a tavola, se non ti amassi come ti amo.
Cosa? Cosa dici? Aspetta bevi. Cosa vuoi adesso, giocare? Sei cresciuto tesoro non te ne eri accorto? E’ arrivato Jerry Scotti, compra una vocale e gira la ruota, sì, dai.
V-A-F-F-A-N-C-U-L-O.
Sei proprio un bambino, tu.

sabato 27 agosto 2011

EROTICO: creatività totale

Sì lo so che sei stanca. Ho capito tutto, non c’è bisogno che mi spieghi ancora, te lo sei detto mille volte. Non ti ci ritrovi in questo modo, non fa per te.
Certo che è squallido, secondo il tuo punto di vista, ovvio. Si tratta della tua sensibilità. E’ vero che è difficile da capire, soprattutto se non lo vivi in prima persona, come no.
Ma non fartene un cruccio per questo, mica è una disgrazia eh...eccheccavolo.
Siete solo diverse.
Lei è così, adesso ha scelto di vivere così.
Se non ti sta bene puoi anche non andarci lì da lei, o no? Dove sta scritto che la devi frequentare se quello che fa ti sembra così assurdo.
Da nessuna parte, appunto.
Hai bisogno di andare lì perchè a casa tua non c’è l’ADSL e devi lavorare? Allora adattati, non ci pensare a quello che avviene su quel letto, pensa a lavorare.
Se sedertici ti fa venire i brividi, allora siediti sul divano.
E’ un divano letto perchè vive in un monolocale? Usa una sedia.
Che poi, dai, mica adesso vorrai convincermi che non ci hai mai pensato anche tu?
Io dico che, almeno una volta, alla fine dei suoi racconti, ti sei chiesta come sarebbe se lo facessi pure tu.
Scommetto che ti sei immaginata in una situazione simile, o forse te ne sei costruita una ad hoc, che  la fantasia non ti manca a te, e ti sei lasciata andare. Ti sei anche bagnata.
Dai non arrossire adesso lo sai che a me puoi dirlo, ti sei bagnata. Vero? O magari sei corsa a casa a toccarti, che sei diventata brava adesso, hai capito come ti piace, conosci i punti, ti muovi bene, proprio bene.
Ricordi? All’inizio ti vergognavi, ti sembrava di fare una cosa sporca, non ti piaceva vederti così, cancellavi tutto alla svelta con fastidio, portandoti via anche la scia di quel piacere rubato.
Non come adesso, adesso è diverso. Sei così bella quando rimani distesa abbandonata sul letto, con gli occhi aperti a fissare il vuoto, il respiro affannoso, leggermente sudata, i capelli appiccicati alla fronte e quel sorriso lì, appena accennato sul viso completamente disteso, ancora immerso nelle tue storie. Rubate. Quelle ancora rubate, sì.
Ti piace appropriarti di storie che nessuno conoscerà mai. E’ questa l’essenza della tua sensualità. E’ per questo tuo mistero inaccessibile che le persone si perdono nel tuo sguardo; uomini e donne indistintamente, alla ricerca di una qualche verità, di una risposta. Una chiave per decifrare i tuoi desideri.
Questa è l’unica strada che conosci.
Lei invece le storie le vive e le racconta. E’ questo che ti infastidisce? Che sia tutto così esplicito? Che non ci sia neanche un dettaglio lasciato all’immaginazione, alla fantasia, che sia tutto sovraesposto, nitido, definito. Ti fa paura questo lo so, perchè a te le linee di contorno hanno sempre fatto paura, tu che fuggi dalle definizioni, che ti rintani nei mezzi toni, nella semioscurità, che cerchi la penombra. Tu che però non rinunci a vedere. Anche se spesso, troppo spesso ormai, guardi con gli occhi della tua fantasia.
Come ieri.
Cosa hai pensato quando l’hai visto e lui ti ha agganciato con il suo sguardo scuro, cosa?
Non ti ha lasciato scampo, non c’è stata una scusa, nessun terreno su cui poggiare il piede nel consueto passo indietro. Ti ha inchiodata con le spalle al muro, e ti è piaciuto.
Avresti potuto appellarti a tutte le tue ragioni e filosofie. Non l’hai fatto.
E non l’hai fatto neanche quando si è avvicinato, così vicino, troppo vicino, a pochi centimetri dalle tue labbra, per parlarti e dirti che non ti aveva mai vista a nessuna della sue mostre, che ormai bene o male le facce sono sempre quelle, artisti, critici, curatori, galleristi, amici. Ma questa amica di amici non l’aveva mai vista, se ne sarebbe ricordato.
Com’è stato sentire il cuore che ti schizzava in gola? Hai avuto paura che se ne accorgesse, che scoprisse il tuo rossore in quelle luci soffuse, che vedesse la tua pelle alzarsi e abbassarsi pulsata dal tuo cuore impazzito. Senza che avessi il tempo di costruirti una corazza di disinvoltura, di puntargli gli occhi in faccia, che tu non hai paura.
No. Hai solo potuto avvertire il calore del suo fiato vicino alla tua faccia e ti è piaciuto, tanto. Lo sguardo è andato giù, si è abbassato docilmente come quello di un animale che ammette la resa e mostra la gola, pronto a farsela azzannare. Hai posato i tuoi occhi sul suo di collo, così forte con la pelle olivastra, scura. Avevi sentito che era appena tornato da Santiago, lui, pittore cileno dal nome romantico e intenso, proprio come la sua bocca, con quelle labbra carnose, così sensuali.
Intorno, la sala gremita di persone, avvolti in un chiacchiericcio che solo in quel momento hai percepito come elemento di disturbo. Era stato come una nuvola colorata quando sei arrivata, ti aveva avvolto allegro come uno sciame di farfalle e ti eri fatta trasportare, di quadro in quadro, salutando qualcuno di tanto in tanto, scambiando cenni di intesa con lei che chiacchierava con quel tipo, sbirciando il tavolo del buffet per vedere se le cavallette avevano lasciato qualcosa. E così gli sei praticamente finita tra le braccia. Se avessi inciampato finendo su uno dei suoi quadri ti saresti sentita meno in fallo.
Ma adesso è tardi per pensarci. Adesso che le sue mani si sono infilate sotto la tua camicetta e ti stanno sfiorando il seno, lo stanno stringendo. Adesso che scendono sui fianchi prendendoti in una morsa, contro di lui, dove una prominenza dura ti avverte che ti sei appena trasformata nella sua preda.
Le sue labbra, quelle labbra così belle sono calde, umide, la saliva ha un buon sapore e tu le mordi, le lecchi e le succhi proprio come un animale affamato.
E’ così, sei affamata di quello da cui fuggi ogni giorno.
Lo prendi e lo stringi forte a te, immagini di sentirlo dentro, pregusti il movimento appassionato di quel cileno caliente e già ti manca il respiro all’idea ed è allora che accade quello che non ti aspettavi. Lui si inginocchia, sì, si inginocchia proprio davanti a te, come uno schiavo implorante. Ti solleva la gonna, dolcemente, accarezzandoti le gambe con le sue mani venose di pittore. Senti la sua bocca sulle tue gambe, baci caldi, la lingua che esplora sempre più su e le dita che la accompagnano fino a sfilare gli slip, una gamba, poi l’altra.
Ed è allora che tutto si è confuso, si è perso cullato dal movimento della sua lingua dentro, e fuori, e dentro. Dalle dita che l’accompagnavano, la guidavano, le facevano spazio.
Adesso esplode, hai pensato, adesso mi esplode il cuore in testa. Un’eruzione di piacere trattenuta a stento dalla sua mano sulla tua bocca, i vostri occhi affrontati come i leoni di San Marco che vedi incisi sulla colonna della galleria, in alto. Le sue labbra ancora bagnate di te.
Le gambe e le braccia vuote, la testa vuota, il cuore impazzito, in quel luogo estraneo.
Lo vedi allontanarsi e tutto vacilla intorno a te.
Torni fra la gente, lo sciame di farfalle ha lasciato il posto ad un nugolo composto di persone che sembrano sapere, raggiungi lei che appena ti vede ti travolge di parole, perchè stasera dovrai tornare da sola che lei ha preso un impegno, e sorride ammiccante, sì, proprio lui, quel tipo lì, carino eh? Poi ti racconto tutto.
Poi ti racconterà tutto. E tu continuerai a non capire, a chiederti che senso abbia quel feroce concedersi. Che ognuno deve riprendere il proprio ruolo.
Ti giri e lui è proprio di fronte a te, ti porge un bicchiere di vino, rosso naturalmente.
Come ti chiami? Non ti ho mai vista da queste parti, sei amica di qualcuno?
Ha delle belle labbra, una bella pelle olivastra, deve essere sudamericano, si sente anche dall’accento spagnoleggiante. Sei tu l’artista? E’ tua la mostra vero? Sì, sono i miei quadri questi, benvenuta. Se ti va te li mostro, così ti spiego un po’ di che si tratta.
Il piacere in una storia rubata, sei ancora bagnata, lo guardi, occhi neri e intensi e un’intimità già profanata dalla tua fantasia, la tua storia rubata, ma questa volta, vedrai che finirai col restituirgliela.