mercoledì 14 marzo 2012

IL MOMENTO FATIDICO

Cammini sul bordo del marciapiede, proprio sul bordo, su quella fascia grigio più chiaro che sembra il risvolto cucito da un sarto. Ti piace mettere i piedi uno davanti all’altro, all’interno della fascia grigia, come se ci fosse il vuoto sotto e tu fossi l’acrobata folle in bilico sul mondo. Il mondo, che nelle tue fantasie si staglierebbe tondo sotto il filo che ti sostiene, oltre un’atmosfera densa e irregolare che offusca la vista e isola dai rumori, anche quelli dei pensieri.
Un piede davanti all’altro, lungo il bordo del marciapiede; un gioco che fai da quando eri bambina, solo uno stupido gioco per non sentirti troppo sola accanto a quel genitore che ti cammina davanti distratto, trascinandosi dietro te e le buste della spesa. Allora c’erano le vetrine di via Cola di Rienzo a suggerire scenari per le tue storie, oggi ci sono quelle di Viale Europa a distoglierti da altre storie. Ma sempre lungo lo stesso marciapiede cerchi di infilare i tuoi passi incerti.
Oggi è un giorno di sole, queste giornate  sono calde e anticipano un’estate imminente, almeno così ti auguri, che davvero non ne puoi più di sentire freddo e chiuderti dentro qualcosa. E’ ora di uscire, è ora di raccogliere le risorse e lottare.
Te lo dici guardandoti riflessa in una vetrina di scarpe, e nemmeno la suola rossa delle tue scarpe preferite adesso riesce a distoglierti da questo pensiero. Devi prepararti  a lottare, ricordati che hai un obiettivo e che devi difenderlo.
E’ facile lasciarsi andare quando tutto fila liscio e quello sembra essere solo un problema degli altri. Tu sei stata fortunata, ancora non hai dovuto  affrontare la situazione seriamente, a dire il vero non te ne sei mai dovuta occupare ancora.
Adesso però sai che è iniziato il conto alla rovescia, non puoi negarlo. Ogni mattina, quando ti guardi allo specchio, sai che quello è un giorno in meno al momento fatidico e ti dici che ce la farai, come ce l’hanno fatta tanti prima di te e che questo, sì, questo ti renderà anche più forte.
Adesso si tratta solo di non farsi trovare impreparati su quella che sarà la tonalità più adatta a te, la più naturale possibile. Perchè anche tu ormai, alla soglia dei 38 anni, stai per iniziare a combattere la tua guerra contro i capelli bianchi.

tratto da: "punti di svolta nella vita di un essere quasi umano su un pianeta quasi neta in un momento del piffero stonato con la custodia rotta"

domenica 11 marzo 2012

La classe non è acqua

Il profumo di soffritto si spande per la cucina. Non è un volgare soffritto, è IL soffritto, non fosse altro perchè lo stai cucinando tu, tu che sei così attento ai dettagli, al particolare che fa la differenza e che ci emancipa da facile retrorica spaghettista. Il tuo soffritto, dicevo, unisce un banalissimo spicchio d'aglio a listarelle di spek sapientemente tagliate con opportuna critica (sempre costruttiva) sulla dimensione forse un po' troppo eccessiva. Il tutto, l'aglio e lo spek, unito in un tripudio di olive spremute a freddo dosato con sapiente metodicità perche, ricordatelo Federica, bisogna avere metodo nella vita. Cazzo quanto sono organizzato.
Ora, tesoro, io non so come fare a dirti che ho messo le birre nel cassetto del frigo, quello riservato alla verdura perchè, come mi hai già spiegato, lì c'è una temperatura e un'umidità specifica, adatta alla conservazione delle verdure. Me lo ripeti mentre apri lo sportello del frigo e mi mostri che bello che è, tutto ordinato, tutto disposto secondo una logica di praticità ed estetica che (altro concetto più volte enucleato) l'estetica è importante, fa la differenza, ci vuole cazzo.
Ora mi illumini dicendo che tu le birre le posizioni nel ripiano più basso del frigo perchè lì c'è la temperatura più bassa e allora io mi ricordo di aver messo le birre nel cassetto della verdura perchè quando tu mi hai detto di rimetterle nel posto più in basso nel frigo io ho pensato che più in basso del cassetto delle verdure non c'era niente. E adesso chi te lo spiega?
Ma non serve, il tuo sguardo di sufficiente indulgenza mi dice che hai compreso tutto, a te serve così poco per capire..
Ma sento che il soffritto non soffrigge più, la cena è pronta e io mi avvicino al tavolo, spero di non fare casino versando il vino, buona appetito, Furio.

Manuale di sopravvivenza nel mondo del femminile per ambosessi e cani di piccola taglia - capitolo xyz: c'avessi avuto un bel culo il mondo mi avrebbe sorriso (forse?)

Continuava a specchiarsi da dietro, uno specchietto in mano per vedere la sua immagine di schiena, per intero, davanti allo specchio grande dell’armadio.
Non c’era griffe, non c’era modello, niente che le rimodellasse quel culo sfatto che, a trent’anni appena compiuti, già si ritrovava. E nemmeno da un giorno; era sempre stata una cicciottella, una cicciottella simpatica con quella faccia allegra, gli occhi grandi e il bel sorriso, che con il tempo aveva imparato a modellare in espressioni che dalla tenerezza potessero trasmettere sensualità, qualcosa che agli uomini suggerisse un’attenuante per quel culo.
Non che fosse una cosa enorme eh, che c’è di peggio in giro, e poi a certi maschi piace pure, che la quantità è sempre uno sporco affare a letto, ma fuori, insomma, quando devi vestirti o devi andare in bikini al mare non è semplice, maglie lunghe e un pareo per ogni occasione. Cheppalle. Farebbe prima a mettersi a dieta ma capricciosa com’è non è strutturata per privarsi di niente, vuole tutto lei, ogni riccio un capriccio e quando non lo ottiene si salvi chi può, il grande culo si trasforma in un Katerpillar che non risparmia niente e nessuno si posizioni sulla sua pretenziosa strada.
Le donne grassottelle sono cattive, come quelle basse di De Andrè, con il cuore troppo vicino al buco del culo, il culo appunto, che a queste signorine scatena una sotterranea invidia verso il resto del mondo, espressione diretta della scarsa autostima che non si confesseranno mai, catapultando un’eterna scontentezza ed esigenza di attenzione su ogni essere venga inghiottito dalla loro compulsiva fame di premure, fino a pretendere autentiche prove medievali d’amore, se con la testa di qualcuno su un piatto d’argento tanto meglio, grazie.
Dei vortici bulimici di egoismo che imprigionano, impigliano, lobotomizzano chiunque provi a voler loro bene.
Ma non si può voler bene a questi esseri, perchè loro non se ne vogliono.
Loro si disprezzano, come possono apprezzare qualcuno che ami l’oggetto del loro disprezzo? Non possono farlo e la faranno pagare cara a questi poveri cristi, la loro debolezza.
Ma intanto quel culo sempre lì sta, incorniciato dal vestitino rosa (rosa, pure tu figlia mia che cazzo, un colore più sobrio no eh?) e non c’è verso di nascondere l’emblema della frustrazione al resto del mondo.
Questo è. Si salvi chi può e chi non vuò, cazzi suoi.

Tratto da: “Manuale di sopravvivenza nel mondo del femminile per ambosessi e cani di piccola taglia”

giovedì 16 febbraio 2012

Maria...ti ricordi?

Ho bisogno di un giorno di sole, uno di quelli in cui, dopo un pranzo pigro al solito posto in Trastevere, ce ne andiamo in giro a raccontarci di quanto è bello sentire arrivare una nuova estate.
Maria te lo ricordi?
Tu sola lo sai, tu sola ci sei stata nei miei risvegli smarriti dopo notti infuocate a combattere draghi preistorici, tuoi i piccoli gesti quotidiani che hanno saputo prendersi cura di me con insalate e risate.
I libri di Vezio, Che Guevara, Titty e Darietto lontano.
L'incontro con Stefano, i miei capelli corti e il funerale di mia nonna...le partenze in scooter senza casco e la paura di morire.
Sono solo immagini sconclusionate di una sconclusionata estate che oggi torna a ricordarmi che emanciparsi dal dolore e dalle sue logiche fa male quanto subirlo, ma a differenza del male che avvolge i rapporti malati, da questo si guarisce, si torna a camminare e poi ti può anche accadere di perderti per i vicoli di Roma con il sole che ti scalda le ossa e ti ricorda che sei sopravvissuta, stai bene.
Le sfumature annebbiano la vista, fanno apparire il nero grigio, e il bianco...grigio.
Noi lo sappiamo Maria, da quella sera delle tue lacrime sul giallo della crema pasticcera di Silvia, al blu forte del mare, le insalate colorate e le bouganville viola dei muri di Trastevere. A me piacciono i colori perchè la vita può essere molto più semplice della spazzatura emotiva che ci trasciniamo dietro a causa di rapporti malati. E quindi, fanculo a chi non sa emozionarsi, a chi non ride, a chi non piange, a chi non si innamora, a chi non legge e non ascolta musica. Fanculo al grigio.

mercoledì 1 febbraio 2012

The passenger



I am the passenger and I ride and I ride
I ride through the city's backsides
I see the stars come out of the sky


Ma guarda chi si rivede...ciao tu, come va? Quante notti ci hanno separato, avvolte in sonni ristoratori, anestetici, consolatori e infine troppo leggeri per sostenere una stanchezza che non realizza, se non parzialmente. Ma che rischia di tradire quanto detto quel giorno. Il giorno in cui ho trovato il coraggio di non farmi comprare da quattro soldi sporchi di meschinità e scorrettezza e me ne sono andata al mare, senza sapere che ne sarebbe stato di me, cosa sarebbe accaduto, piena soltanto di una libertà discreta e inevitabile, che illuminava la strada sotto di me come il cielo stellato con i naviganti infiniti.
Una serata piena di stelle sulla spiaggia, con persone chiassose e divertenti, superstiti di un’estate in città alla ricerca di brevi evasioni ai margini del grigio quotidiano.
Io tra di loro, con il viso disteso e poca voglia di parlare. Dentro di me una deflagrazione. L’avevo fatto davvero? Quella cosa impronunciabile che era stato così difficile dapprima anche solo pensare, inesprimibile a parole senza incontrare espressioni di disappunto e preoccupazione in chi mi ascoltava e infine compiuta, che ognuno ha il suo destino e quando la tua strada ti chiama, rispondere è solo questione di tempo.
Sono passati cinque mesi da quel giorno, pieni di cose leggere e ricostituenti. Io ho ricominciato a dormire, a lavorare, a uscire, fare sesso e anche shopping. Ho smesso di scrivere, più o meno, che non si smette di respirare per quanto interessante sia un’apnea.
Una dolce, necessaria deriva.
E adesso, di nuovo non dormo ascoltando i battiti del mio cuore che si sveglia di soprassalto la notte come se la mia gabbia toracica fosse troppo angusta per il suo espandersi generoso, sì generoso, ancora una volta generoso con me. Ci vuole una spinta esagerata per pulsare sangue e rimettere in circolo energie, attivare i sensi, tutti e 6 per fiutare il vento che torna a soffiare gitano portando il mio nome con sè.
Ora, pochi forse sanno, leggendo queste nuove righe anticipatrici, che a quel vento risponderò  ancora una volta “sì”.

mercoledì 28 dicembre 2011

E quindi...ciao

No, non me lo chiederò fingendo un reale interrogativo sul perchè le considerazioni sistemiche avvengano sempre a fine anno. E’ già tanto che non parto con carrellate di buoni propositi per il nuovo anno tipo smettere di fumare o mettermi a dieta.
Ma proprio passarla liscia, come se fosse un giorno come un altro, come se questo fosse stato un anno come un altro, quello no.
Che non lo sia stato è dimostrato dal fatto che non lo mando a cagare come ho fatto con gli ultimi scorsi. Ormai è un sentire comune, finisce l’anno e che vada affareinculo lui e tutto quello che ci ha fatto patire, perchè adesso sì che è finito e possiamo accogliere sorridenti l’entrata trionfante dell’anno dell’ariete, della tigre, dello yin o del peperone verde. L’anno in cui Urano entra in trigono con Giove e questo non succedeva da 87 anni, presagio di stravolgimenti e grandi successi finanziari. Sì, ogni anno cerchiamo segnali e presagi di qualcosa che cambierà in positivo, perchè l’anno che si conclude è stato specificamente una merda.
Cosa nuova quindi, sentirsi spaventata dall’arrivo del momento dell’addio con questo 2011 che, come un’onda lunga, mi ha sollevata, sospinta  e trascinata in salvo su una spiaggia deserta, per poi ritrarsi, lasciandomi sola davanti ad un mondo nuovo, un nuovo mondo.
Ci siamo, potevi togliermi la vita, me l’hai restituita.
Potrei dire mille cose ora, potrei ripercorrere le tappe di questi 12 mesi che hanno valso 37 anni, che hanno dato senso a tutto, a tutto, hanno rimesso a posto cose che un posto sembravano non averlo. Un anno fatto di momenti cristallizzati nel mio cuore e nei miei ricordi, che non dimenticherò mai. Porte finalmente chiuse, oltrepassate senza più voltarmi indietro, già così lontana ad inseguire il mio cuore.
Lo rivivrei altre mille volte questo anno incredibile, con tutte le persone che ci sono state, che mi sono stare vicine, che sono rimaste, o che sono tornate solo per farsi dire addio.
Non ho mai sentito tanto amore vicino a me, non ho mai riso tanto, non ho mai avuto tanta paura, non avevo mai avuto paura di morire prima.
Ho troppe parole in testa adesso, troppe emozioni nel cuore e l’unica cosa che vorrei è stringere forte tutti i miei amici, tutte le persone che ogni giorno partecipano alla mia vita, da distanze diverse e ognuna a suo modo, vorrei stringermi a loro, chiudere forte gli occhi e fare un respiro profondo, ciao 2011, davvero non ti dimenticherò.

martedì 6 dicembre 2011

La parola FINE

L’agente Ferrante non credeva alle sue orecchie. La frazione, l’indirizzo e il civico, gli stessi. Lo stesso luogo che dieci anni prima era stato il teatro degli orrori che aveva sconvolto il paese. L’talia era rimasta incredula davanti alla violenza prima, all’orrore dopo, quando la mano che aveva interrotto con quarantotto coltellate la vita di una giovane donna e del suo bambino si era rivelata essere quella dell’altra figlia, allora soltanto sedicenne.
Anche in quell’occasione era toccato a lui raccogliere la chiamata. Un tentativo di rapina ad opera di extracomunitari, rumeni, chi se ne sarebbe stupito? Non sarebbe stato certo il primo episodio, la gente è esasperata da un clima di paura e violenza che ha bruscamente interrotto una vita all’insegna della civiltà e della pace. Questa era gente che lasciava la porta di casa aperta per capirci, con le chiavi appese nella serratura, senza spranghe alle finestre, senza allarmi tecnologici. E lei questo lo sapeva bene quando ha raccontato in lacrime la sua storia ai vicini prima e alla polizia dopo. Ferrante se la ricorda, un viso pulito, ingenuo, la classica ragazza della famiglia bene del nord, con le mani pulite.
Ma era stato proprio il sangue che macchiava quelle manine curate a farla finire in carcere per dieci anni.
Se ne è parlato a lungo; in tanti si sono continuati a domandare come fosse stato possibile, come fosse potuta accadere una cosa tanto orrenda, assurda, inconcepibile, come se fossimo davvero ancora capaci di stupirci per questi orrori.
Si è parlato a lungo anche di lui, il padre.
Quell’uomo in un solo istante si è visto portare via moglie e figlioletto piccolo. E da chi? Dalla figlia maggiore.
L’agente Ferrante si è chiesto mille volte come si sarebbe sentito se fosse capitato a lui, lui che ama teneramente la moglie dopo tanti anni e che darebbe la vita per i suoi tre figli.
Cosa avrebbe provato se uno di loro avesse fatto qualcosa di simile? Come si sarebbe sentito? Cosa avrebbe fatto? Se lo sarebbe chiesto ancora mille volte l’agente Ferrante ma non sarebbe comunque arrivato mai a comprendere il comportamento di quel padre, il vero enigma di tutta quella triste storia.
Lui che è rimasto accanto a quella figlia in ogni circostanza alla quale fosse ammessa la sua presenza.
Lui che, durante il processo, non ha rilasciato una dichiarazione.
Lui per una volta alla settimana ha fatto visita alla figlia in carcere, rimanendole vicino e sostenendola negli studi.
E sempre lui, aveva riverniciato le pareti di quella casa degli orrori, dove si sono fermati i sogni, le speranze, dove sono andati in fumo i sacrifici e i progetti di una coppia che ha visto nascere una famiglia. Nessuno avrebbe potuto mai immaginare che quella piantina a cui hai dato ogni giorno acqua e cure si sarebbe rivelata una pianta carnivora.
Quella famiglia era implosa in una sera di ribellione e sangue. Sconosciute le ragioni, inutile cercarle dove ragioni non esistono, la violenza si nutre a volte solo di se stessa.
Lui però era rimasto lì, fedele a quell’idea di casa, dove era nato tutto e dove si erano consumati anche tanti momenti felici.
E’ rimasto lì per dieci anni.
Ieri lei è uscita, fine pena, dieci anni dopo.
Una donna, bella, adulta, lunghi capelli scuri ma ancora quello sguardo pulito, come se fosse stato tutto lavato via.
Ad accoglierla, con la sua grande macchina da uomo benestante del nord, lui, papà.
La portava a casa ieri sera, dopo dieci anni, la riportava là, in quella casa che lui ha riverniciato e rimesso a posto, per accogliere quel che resta di una famiglia distrutta: il suo omicida.
E così ieri l’agente Ferrante, come un po’ tutti poi, è rimasto un po’ attonito davanti alla tv che riproponeva quelle immagini di una famigliola che si ricomponeva, come quando, dopo una marachella, ti vengono a riprendere da qualche parte mamma e papà per riportarti a casa. Solo che mamma non c’è, e non c’è nemmeno il fratellino che ti considerava la sua migliore amica. C’è quella casa, integra, ancora in piedi, dove un padre  che nessuno ha saputo interpretare per anni ti ha aspettata alternando giorno e notte per dieci anni senza che nessuno capisse cosa pensasse.
Fino a stamattina.
Questa chiamata annuncia qualcosa di brutto.
L’agente Ferrante vorrebbe ignorarla e tirar dritto, andare a presidiare la scuola per assicurarsi che i ragazzi entrino alle lezioni senza incidenti ma, ancora una volta, è lui a trovarsi più vicino.
Quando arriva davanti alla villetta il gruppetto dei vicini di casa ha impressa sul viso la stessa espressione che deve avere lui, un angoscia senza sorprese.
Forse nessuno avrebbe voluto pensarci prima, per quanto adesso appaia tutto così chiaro, logico, consequenziale.
Il corpo della ragazza, riverso nel suo letto, nella cameretta con le pareti rosa pastello, perfettamente ordinata, con i fiori freschi davanti alla finestra, e un cadavere in un bagno di sangue sul letto. Un colpo in testa.
Lui seduto alla scrivania del suo studio, come nei film di spionaggio, stessa sorte. Sulla scrivania, posizionato a debita distanza affinchè non venisse impregnato di sangue (ma in dieci anni hai avuto tempo di pensare a tutto) un biglietto: una famiglia sta insieme.
La spiegazione di tanto mistero, il lento scorrere del tempo, un finale da grande regista, l’attrice principale, al massimo della naturalezza.
La parola fine.
La famiglia comprende.
La famiglia sostiene.
La famiglia protegge.
La famiglia giudica.
La famiglia perdona.
In quella notte di orrore e rivelazione, negli occhi limpidi della figlia, aveva riconosciuto se stesso e il male che annida e metastatizza, divenendo genetico.
Aveva protetto la sua creatura dalla società, per riportarla a casa prima che venisse smascherata e condannata per ciò che realmente è.
A casa, in famiglia. Papà ti ama, papà si prenderà cura di te.